XI

LA PREPARAZIONE DELLA «GINESTRA»:

«PALINODIA» E «NUOVI CREDENTI»

Quale valore si può attribuire a componimenti come la Palinodia e i Nuovi Credenti? L’inclusione del primo nella edizione napoletana del ’35 lo impone comunque all’attenzione recalcitrante dei lettori e dei critici, mentre il noto saggio crociano[1] ha fatto del secondo una specie di gustoso documento di costume napoletano molto pungente in senso «kulturgeschichtlich».

In realtà la chiara coscienza, non prepotente, di una continuità di poetica e di «tempo spirituale» quale abbiamo costatato nel corso di questa esperienza critica, trova la ubicazione fruttuosa delle due opere nella preparazione della Ginestra, nella preparazione cioè (e il discorso riguarda anche i Paralipomeni) di una nuova struttura lirica in cui l’esigenza di unità fra pensiero e poesia (tanto per esprimersi con abbreviazioni consuete) fosse risolta piú strettamente e d’altra parte sotto l’accento unificatore della poetica dell’affermazione personale, della poetica antiidillica. Sicché il tono discorsivo che predomina in queste due poesie viene a spiegarsi ben diversamente da quello di un Leopardi di altri tempi, non come diverso esito puramente ornamentale di affioranti esigenze speculative, ma come esercizio stilistico sul tema essenziale: ricerca di assimilazione delle linee del pensiero, della persuasione leopardiana piú dispiegata, di accordo tonale, musicale delle nuove certezze, dei «loci communes» della personalità leopardiana. Tentativi in sé falliti e periferici di fronte allo sforzo profondo della Ginestra che certo però profittò di queste esperienze condotte su di un piano non lirico e col presupposto di una vittoria parziale e letteraria.

La Palinodia ha proprio evidente la consapevolezza dei limiti in cui si pone e nel riprendere la forma di ritrattazione ironica già adoperata nel Tristano la intercala con la parte direttamente polemica privandosi dello slancio che trionfa nel grandioso finale di quello, ma mostrando la volontà di un esperimento prezioso di frammentazione e di continuità in un ritmo sostanzialmente neoclassico ricercato per possibilità di precisione e di efficacia adatte ad una linea complessa e ad una continuità cosí tradizionalmente offerta dagli sciolti nella tradizione settecentesca pariniana e di scrittori di «epistole» alla Pindemonte. E il risultato poetico è quasi nullo, la sua efficacia pungente e le sue esplosioni piú dirette sfumano in una tensione poco pura e troppo esornativa, neoclassicamente lineare. Tale da sconsigliare comunque una utilizzazione diretta di una simile formula in un impegno piú decisivo e tale pure da servire come affinamento del linguaggio nella sua volontà di adeguazione polemica e ironica di movimenti intellettuali, di precisazioni di entità e di strutture vitali. Ciò che nell’Epistola al Pepoli mancava poi di quella risolutezza che dà una spinta creativa al semplice gusto del descrivere e del circoscrivere con eleganza moti ed oggetti.

Ma certo la vicinanza di modelli illustri e il piacere di una scorrevolezza preziosa in un momento di scarsa tensione e di ricerca letteraria provoca un prevalere di prelibata incisività che sfrutta parinianamente l’effetto icastico e stridulo delle parole moderne ed esotiche in un contesto elegante e classicheggiante:

da Marrocco al Catai, dall’Orse al Nilo,

e da Boston a Goa...

né maraviglia fia se pino o quercia

suderà latte e mele, o s’anco al suono

d’un walser danzerà...

seggiole, canapè, sgabelli e mense,

letti ed ogni altro arnese, adorneranno

di lor menstrua beltà gli appartamenti[2]...

E per una certa eccessiva vicinanza al Giorno il poeta si induce a quadretti minuti e lucidi

(Alfin per entro il fumo

de’ sigari onorato, al romorio

de’ crepitanti pasticcini, al grido

militar, di gelati e di bevande

ordinator, fra le percosse tazze

e i branditi cucchiai, viva rifulse

agli occhi miei la giornaliera luce

delle gazzette...)

mentre utilizza ad effetti ugualmente ironici i procedimenti piú larghi e risoluti della nuova poetica con parole pausate

(profondamente, del mio grave, antico

errore, e di me stesso, ebbi vergogna)

con chiuse battute e rilevate in periodi tagliati al centro del verso

(ogni giornale,

gener vario di lingue e di colonne,

da tutti i lidi lo promette al mondo

concordemente),

con accentuazioni assolute di distacco temporale che qui divengono naturalmente eloquenti, esteriori, provvisorie:

e le macchine al cielo emulatrici

crebbero e tanto cresceranno al tempo

che seguirà, poiché di meglio

in meglio senza fin vola e volerà mai sempre

di Sem, di Cam e di Giapeto il seme.

Si può osservare, per precisare il tono della Palinodia, che il motivo che anima queste forme ornamentali ha una sua coerenza con tale intonazione che si basa su oggetti, su parole-indici di cose, elevandole con sensistica eleganza a perfezione neoclassica, in quanto l’oggetto della satira leopardiana è qui limitato soprattutto al progresso materiale che i romantici avevano pur esaltato con quel largo margine di ingenuità che aiutava il Leopardi nel disconoscere anche il loro entusiasmo piú concreto ed attivo. Specie nella prima parte del componimento fino al verso 154, l’ironia di questo materialista cosí fanaticamente convinto di certi valori morali eroici proprio nella loro sfortuna mondana, si rivolge contro l’illusoria felicità delle macchine, della scienza politica, della statistica (estremo simbolo dell’astrattezza civile contro cui l’illuminista romantico insorge):

Piú molli

di giorno in giorno diverran le vesti

o di lana o di seta...

che sembrano indicare bene il modulo artistico di questa poesia e il simbolo di questo esteriore progresso.

Senonché l’esperimento neoclassico-ironico di descrizione satirica è a sua volta sostenuto e valorizzato nel clima nuovo leopardiano – anche se poi il loro intersecarsi è ragione di debolezza nello schema della poesia – da un tono di sdegno, dalla rivolta al motivo dell’ineluttabile regno della forza: il motivo machiavellico-alfieriano («la forza governa il mondo pur troppo! e non il sapere»[3]) che è presente col suo realismo disilluso e virile nella nostra tradizione romantica, a suo modo fin nel Manzoni:

Imperio e forze

quanto piú vogli o cumulate o sparse,

abuserà chiunque avralle, e sotto

qualunque nome. Questa legge in pria

scrisser natura e il fato in adamante...

Motivo che si riattacca piú esplicitamente ai grandi temi dei nuovi canti, agli spunti di Arimane («Natura è come un bambino che disfa subito il fatto») e che si affaccia spiegato in un tono che per le ragioni già dette rimane inadeguato come tema supremo di questi anni.

Sono i versi 154-181 che sulla trasformazione di meditazioni precedenti (Zibaldone, 2 dicembre 1828; Dialogo della Natura e di un Islandese) si alzano di tono, rinforzano il lessico e le mosse di recisa sottolineatura tipica della nuova poetica (con le forti posizioni vive nella Ginestra, «eternamente», al verso 167; «irreparabilmente», al verso 176) fino al ritmo implacabile che tenta adeguare la lotta crudele della natura contro il fragile mortale

(indi una forza

ostil, distruggitrice, e dentro il fere

e di fuor da ogni lato, assidua, intenta

dal dí che nasce; e l’affatica e stanca,

essa indefatigata; insin ch’ei giace

alfin dall’empia madre oppresso e spento),

che vuol «definire» nel senso piú pregnante della parola la sorte dell’uomo:

non altro in somma

fuor che infelice, in qualsivoglia tempo,

e non pur ne’ civili ordini e modi,

ma della vita in tutte l’altre parti,

per essenza insanabile, e per legge

universal, che cielo e terra abbraccia,

ogni nato sarà.

Tanto si procede anzi in questa direzione che il ritorno della «palinodia» è sempre piú fiacco e non basta un ultimo movimento di riso sdegnato a sommuovere i limiti di un effetto discorsivo senza pretese di liricità: che è poi la coscienza presente in tutto il poemetto ed opera certamente perfino nel momento di maggiore impegno nel riconoscergli un carattere non definitivo e di saggio di un linguaggio piú adatto a nuove espressioni liriche ambiziose di messaggio individuato in una energica presentazione della personalità poetica in atto.

L’impasto neoclassico in cui il Leopardi tentò l’esperimento della Palinodia è rifiutato per le terzine tipiche del discorso satirico nei Nuovi Credenti rivolti alla satira, meglio alla lotta contro l’ambiente degli spiritualisti napoletani come la Palinodia era rivolta contro il milieu Capponi di Firenze.

Mosso dalla polemica, risoluta incomprensione di un mondo a lui estraneo e ritenuto frivolo e dalla irritazione della sua sensibilità tesa all’estremo di fronte alle piccinerie avvertite in quegli eloquenti intellettuali meridionali, il Leopardi, eccitato anche dai probabili giudizi sulla sua posizione filosofica considerata arretrata e infeconda ripetizione della cultura settecentesca, volle tentare una formula piú colorita e facile, piú direttamente e allegramente (nella sua ferocia) satirica che rispondesse anche a quell’aria napoletana che si farà sentire depurata e nobilitata nella Ginestra e agevolasse la formazione di un tono quasi piú popolaresco, piú sanguigno rispetto alla pungente eleganza neoclassica. Quasi immediatezza che volesse adeguare una delle direzioni di questo atteggiamento del nuovo Leopardi coraggiosamente ed apertamente polemico contro gli esponenti del “mondo sciocco”, contro la cronaca vissuta della sua storia piú profonda.

Già il titolo brioso, ma inequivoco nel colpire nuovi e vecchi «credenti», ma soprattutto questo che gli sembrava ridicolo infantilismo, dà il suono di questa poesia che ci parla sempre nella sua facilità di una forza personale capace di un attacco cosí spregiudicato e sicuro da farsi lieto, sbrigativo, senza le remore decorose della complessa e frammentata linea della Palinodia. Va poi naturalmente calcolata in questo procedere lieto ed agevole del componimento la presenza della forma tradizionale del capitolo e della satira specie dall’Ariosto in poi con la loro inflessione di discorso fluente, di apparenze bonarie e quasi familiari, perfino con cadenze sciatte che celano una particolare cura letteraria:

Spiaccion dal Lavinaio al Chiatamone,

da Tarsia, da Sant’Elmo insino al Molo,

e spiaccion per Toledo alle persone.

E ne riesce cosí la confluenza del tono di occasione, vivo in questa poesia di scarsa maturazione, con un fare tradizionale che vengono resi anche piú sicuri e percorsi da venature piú intense e piú cupe da una volontà combattiva e sdegnosa, ferma intimamente sotto lo scherzo, dalla serietà di una poetica che si pone come espressione intera di verità vitale, non mai come decorazione:

le carte ove l’umana

vita esprimer tentai, col Salomone

lei chiamando, qual soglio, acerba e vana.

Dove l’«esprimere» non è una parola approssimativa per una piú lunga elocuzione, ma porta proprio il senso di una poetica ambiziosa di sintesi centrali ed attive che, dopo le prove dei nuovi canti precedenti, tenterà la sua prova piú ardita nella Ginestra quando questi esercizi piú laterali saranno esauriti e i loro moventi di cronaca saranno assorbiti nel «fetido orgoglio» dell’umanità inferiore che non ha piú volti particolari, vicende precise come nei Nuovi Credenti. Qui vale poi come spiegazione del tono particolare che individua il particolare esercizio del Leopardi, oltre il suggerimento tradizionale e una violenza di scherno che si fa rapido riso di distacco, quasi un riflesso di quella letizia napoletana che il Leopardi scherniva (e si sa anzi che proprio dei «Capitoli berneschi in lode dei maccheroni e dei pomidori» circolavano allora per Napoli e poterono stimolare non solo per contrasto la fantasia leopardiana), ma da cui poté essere preso in certe mosse grottesche, eroicomiche in cui la molla segreta piú si piega accettando sotto il segno del disprezzo una provvisoria bonarietà pittoresca che va perfino calcolata nella serietà tragica della Ginestra[4].

Il moto generale, mentre si gonfia di riferimenti satirici sempre tesi nel loro obbiettivo finale, risente l’apporto della “gioia di vivere” napoletana nel mentre che la schernisce e ne acquista una certa pienezza in simpatia con le linee poco angolose delle epistole tradizionali: cosí nel bel periodo dal verso 7 al 25 in cui tremola, sul gusto di disegno alla brava tipico dei Paralipomeni e di questo momento poco lirico e preparatorio, la famosa miniatura:

Sallo Santa Lucia quando la sera

poste le mense, al lume delle stelle,

vede accorrer le genti a schiera a schiera,

e di frutta di mare empier la pelle.

E del resto la differenza di intensità e di luminosità fra il tessuto piú generale e la satira particolare dei singoli nuovi credenti è da riferirsi anche alla manifesta volontà di un rilievo all’evidenza ritrattistica dell’ipocrita spiritualismo dei clercs napoletani[5] di fronte all’istintivo, anonimo edonismo delle folle che si collega a quel «comunque esistere» che tanto attirò l’attenzione del Leopardi. Al contatto dei singoli oggetti satirici la macchietta nasce feroce e limitata anche se presa nello scorrere lieto del ritmo:

... il qual beato

dell’amor d’una Dea che batter l’ali

vide già dieci lustri, i suoi contenti

a gran ragione omai crede immortali...

... che da Venere il cielo avealo escluso.

Per sempre escluso: ed ei contento e pio,

loda i raggi del dí, loda la sorte

del gener nostro, e benedice Iddio.

E canta...

Ma al di sopra di queste macchiette, di questi moti piú acri e pungenti entro l’aria particolare dei Nuovi Credenti con il loro passo cosí diverso da quello della Palinodia e che, come abbiamo cercato di fare, si giustifica nel presupposto di una coscienza artistica di esperimenti, l’orecchio avvertito sente come punti tipici, ed acme di questo discorso poetico, quelle posizioni affermative ed eroiche

(perché il vivere io chiamo arido e tristo),

quei moti di superiorità che impegnano la coscienza leopardiana di una verità non piú solamente costatata, ma bandita coraggiosamente in un coerente ritmo interno: che infelici sono gli uomini sensibili

(che misera non è la gente sciocca),

che l’infelicità e il tedio sono segni di alta natura

(noia non puote in voi, ch’a questo scoglio

rompon l’alme ben nate...),

che i mediocri sono lieti perché lontani dal senso dei valori che esaltano e turbano l’uomo:

e il cor, che né gentil cosa, né rara,

né il bel sognò giammai, né l’infinito.

Versi forti in cui il Leopardi della piena maturità riafferma nel suo materialismo la fedeltà ai valori e a sentimenti romantici (il bello, l’infinito, la «gentilezza») e la sua virile accettazione della morte come ultimo valore assoluto, come eroica protesta della persona umana:

Voi prodi e forti, a cui la vita è cara,

a cui grava il morir; noi femminette,

cui la morte è in desio, la vita amara.

Queste espressioni, questi movimenti sono forse solo l’eloquenza di questo periodo, la traccia di un fuoco spento o il precipitato astioso e ragionativo di un solitario asceta della sensibilità dolente e passiva? O la musica interna, il piglio di queste frasi letterarie, l’impeto di questa forma non segnala invece due cose: la presenza viva di una poetica ben cosciente anche nei momenti di esercizio e di preparazione e perfino qui la natura nuova, non un grado negativo, nello sviluppo leopardiano? Ed è a questa luce che si trae dal limbo dei giudizi incerti e passivi, in cui sostanzialmente è rimasto[6], il poemetto satirico I paralipomeni della Batracomiomachia.


1 B. Croce, Commento storico a un carme satirico di G. L., in Aneddoti di varia letteratura, Napoli 1942, III, pp. 102-113.

2 Si è notato già in Aspasia questo gusto di parole moderne e quasi di uso corrente ottocentesco.

3 Alfieri, Del principe e delle lettere, Bari 1927, p. 111.

4 Non mi sembra però che quella luce modesta di letizia sia riducibile a gusto di quadretti napoletani e che questo costituisca il fascino essenziale della satira. «Che cosa m’attira della satira leopardiana? Non veramente la bellezza poetica perché quella satira è nient’altro che un acre sfogo del Leopardi contro certi pensieri e sistemi... Né la vigoria filosofica... Nemmeno la verità del giudizio morale e politico... Che cosa dunque m’attira? Proprio l’immagine della lieta vita napoletana di allora, che traluce in alcune terzine e che è anche la sola parte di quel componimento non priva di qualche tocco pittoresco». Dice il Croce nel suo saggio, alterando, per l’amore «secondo ottocento» del quadretto, non la poesia, ma la natura di quelle immaginette mosse da un vigore baldo di satira che si fa piú acre nei confronti dei singoli credenti e rimane piú lieto nel tessuto generale combinando l’impeto suo con il riflesso dell’ambiente satireggiato.

5 Questi e molti altri che nimici a Cristo / furo insin oggi (vv. 70-71): Spiritualismo vernice di precedente moda materialistica.

6 [A parte le interessanti, ma diverse indicazioni di Bacchelli (commento ai Canti, Milano 1945), a me sfuggite quando scrivevo questo saggio].